Il campo profughi di Suruc è davvero immenso. Circa trentacinque mila persone vivono da mesi, alcuni quasi da un anno, in questa città dentro la città che dista 7 km dal centro di Suruc. All’ingresso guardie armate controllano scrupolosamente chi entra e chi esce, nessuno escluso. Ogni auto viene passata al setaccio, il rischio attentato è ancora forte e la tensione rimane molto alta. Anche noi veniamo ovviamente fermati, ma ci viene impedito di entrare: senza il permesso da parte degli uffici preposti ad Ankara non possiamo passare. Torniamo in città diretti verso la prefettura e otteniamo per il giorno seguente i pass per avere accesso al campo. Davanti a noi una strada che sembra non finire mai e una distesa di tende grigie, tutte perfettamente allineate e tutte, ovviamente, identiche l’una all’altra. Il caldo è soffocante e poche sono le persone che a quest’ora del pomeriggio si avventurano fuori.
Il nostro accompagnatore è molto attento ai nostri movimenti e ci impedisce di scendere subito dalla macchina. Chiediamo di parlare con qualcuno, ma lui insiste a farci vedere ciò che di “bello” c’è all’interno del campo: l’ospedale, il supermercato, la scuola, il centro ricreativo ecc. In effetti è uno dei campi meglio organizzati mai visti, tutto sembra funzionare e tutto sembra perfettamente al suo posto. Ma mai come in questi casi si può essere ingannati dalle apparenze. Nell’ottobre del 2014 a Suruc sono arrivati circa cento mila curdi siriani, tutti richiedenti aiuto internazionale. Per mesi il governo turco ha lasciato queste persone in balia degli eventi. L’HDP, il partito curdo che alle ultime elezioni ha ottenuto il 13%, accusa Ankara di trattenere gli aiuti provenienti dall’estero e di non distribuirli tra la popolazione curda siriana in fuga dalla guerra.
Cala il sole e la gente inizia a uscire per strada. Insistiamo e alla fine convinciamo il nostro accompagnatore a farci parlare con alcuni abitanti del campo. Incontriamo Islam in una delle tante tende, la sua come le altre è semi vuota all’interno, solo pochi materassini a fare da letto e qualche tappeto per terra. “Dopo qualche giorno dall’inizio della guerra la Turchia ha aperto il valico, ma comunque per mesi siamo rimasti a dormire sui marciapiedi, è stata molto dura.
Oggi è molto complicato andare a Kobane, i turchi difficilmente ci lasciano passare, anche solo per portare aiuti.” Islam e la sua famiglia vivono nel campo di Suruc da un anno e bene ricordano gli uomini del califfato: “Io sono un architetto” racconta Islam “per anni ho lavorato a Raqqa. Poi sono arrivati i terroristi e tutto è cambiato. Ho visto le teste delle persone infilzate ai pali dei cancelli. Sono scappato via e corso con la mia famiglia qui.” Islam è uno dei tanti ad essere scappato dall’Isis, ma oggi come non mai sa che il nemico potrebbe non essere più solo e soltanto il terrorismo islamico: la guerra riesplosa con la Turchia potrebbe costringere lui e tanti altri a doversi muovere ancora una volta.